La carrozza di Gurdjieff

Il filosofo Gurdjieff compara l’uomo ad un veicolo destinato al trasporto di un passeggero e composto da carrozza, cavallo e cocchiere: la carrozza rappresenta il corpo fisico, i cavalli le emozioni, il cocchiere la mente, e infine il passeggero la coscienza, l’anima o il vero Sé.

I cavalli vanno controllati, altrimenti la carrozza verrà trascinata a caso senza alcuna meta, per questo esiste il Cocchiere che guida i cavalli lungo la giusta strada. Ma nemmeno il cocchiere, seppure molto bravo a condurre la carrozza, sa esattamente dove andare, l’unico a saperlo veramente è il Passeggero ed è l’unico che può indicare la via.

La metafora proposta da Gurdjieff fa ben capire come funziona l’essere umano: i cavalli (le emozioni) sono legati alla carrozza tramite delle staffe rigide, che quindi rendono la carrozza (il nostro corpo) estremamente sensibile al movimento dei cavalli. Il cocchiere (la mente) comunica ai cavalli con le redini, che non sono rigide, quindi il controllo dei cavalli non è sempre così ineccepibile. Ci vuole esperienza e coraggio per tenere a bada i cavalli.

Il problema è che il cocchiere riceve gli ordini dal passeggero (la coscienza) solo attraverso la voce, che è un collegamento sensibile alle interferenze. E’ proprio quello che succede nella realtà: spesso la mente agisce da sola, senza ascoltare la propria anima perché addormentata. La mente così si confonde col rumore di fondo rappresentato nella metafora dal chiasso causato dalle ruote e dagli zoccoli sul terreno, e nella realtà dai pensieri incontrollati che affollano la nostra mente.

E allora svegliamola la nostra anima, il nostro vero Sé . Chiediamoci quali sono i nostri schemi mentali e le abitudini che condizionano la nostra vita.

Successivamente possiamo iniziare un percorso di consapevolezza, di risveglio della nostra anima per ritrovare la nostra direzione e rimetterci alla guida della nostra carrozza!

[dal web]

Sindrome di Munchhausen per procura

Il mio post di un paio di giorni fa non era altro che un’introduzione a ciò di cui vorrei parlare stasera. Si tratta di un altro tipo di disturbo mentale, che in realtà mi interessa ancora più del precedente e di cui si sente parlare: la sindrome di Münchhausen per procura.

In questo caso  il soggetto affetto dalla patologia è spesso un genitore  (di solito la madre) del soggetto che subisce l’abuso;  il disturbo mentale che lo affligge lo spinge ad arrecare danni al figlio al fine di farlo credere malato e attirare l’attenzione su di lui e a creare commiserazione su se stessi. I metodi usati per creare sintomi nei figli sono eterogenei e spesso crudeli. Ad alcuni bambini sono state iniettate insulina o urine. Altri sono stati avvelenati con veleno per topi, purganti, arsenico, olio minerale, lassativi, tranquillanti e sedativi, sale da cucina e in un caso persino con massicce quantità di acqua. Tra gli attacchi fisici si sono verificati tra gli altri: punture di spillo sul viso e sul corpo, lesioni facciali da strumento o con unghie e soffocamento premendo una mano o un cuscino sul volto del figlio. Altri attacchi fisici ugualmente pericolosi sono stati la volontaria sottonutrizione e ambiente domestico sporco e trascurato, induzione di attacchi epilettici o perdita di coscienza. Una tecnica indiretta usata da queste madri è quella di falsificare le analisi di laboratorio, introducendo elementi estranei nei campioni, ad esempio con batteri di origine fecale o vaginali, alterando quindi i veri risultati delle analisi, o sostituendoli con altri di pazienti realmente malati.

Questo tipo di sindrome è molto complessa da descrivere perché le caratteristiche dovrebbero essere esplicitate dai bambini, ma sono  legate all’età, alla sua dipendenza dall’abusante e alla sua capacità di comunicare. Spesso l’abuso trova “colpevole”, o quantomeno indifferente, tutti i membri della famiglia che inconsapevolmente profittano della situazione per mantenere la stabilità e l’unità famigliare e negano i conflitti.

 Oltre a ciò c’è da dire che questo tipo di soggetti vengono spesso scambiati dal personale medico per genitori affettuosi siccome si interessano con diligenza alle istruzioni impartite dai medici negli ospedali.  Tutto ciò, oltre che a configurarsi come un danno morale nei confronti del soggetto rappresenta un vero e proprio evento di abuso su minore, penalmente perseguito dalla legge italiana (così come da molti altri stati nazionali).

Ecco, io penso che queste cose andrebbero sapute da tutti, in modo da comprendere ciò che a volte, purtroppo, succede e poi anche per essere vigili su ciò che ci accade intorno. E’ sbagliato pensare che queste barbarie accadano solo a gente a noi sconosciuta, qualche volte gli “altri” potremmo essere proprio noi.

La sindrome di Münchhausen

[Il Barone di Munchhausen]

Il nome della sindrome deriva dal Barone di Münchhausen (Freiherr Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, 1720-1797), un nobile tedesco, che era noto per raccontare molte storie fantastiche e inverosimili su se stesso. 

Lo scrittore Rudolf Raspe pubblicò queste storie nel romanzo Le avventure del barone di Münchhausen. Nel 1951, il medico britannico Richard Asher fu il primo a descrivere un tipo di autolesionismo, in cui il soggetto si inventava storie, segni e sintomi di malattia. Ricordando il barone di Münchhausen, Asher, nel 1951, chiamò questo disturbo “sindrome di Münchhausen” .

La Sindrome di Münchhausen è un grave disturbo psicologico: le persone affette fingono una malattia, un trauma psicologico o incidenti per attirare attenzione, compassione e simpatia verso di sé. La persona che soffre di questa patologia, esaspera o inventa di sana pianta dei sintomi. A volte è anche conosciuta come sindrome da dipendenza dell’ospedale.

[Il Barone di Münchhausen]

Curioso, vero? Quanti di voi da piccoli non hanno letto “ Le avventure del barone di Münchhausen.”? Anni fa era un must! Un libro di avventure spettacolari, che a me sinceramente non piaceva molto perché lo trovavo un po’ eccessivo. La cosa strana è che ritrovo quel nome in un libro di psicologia, ed è di questa cosa curiosa che volevo parlarvi stasera… ma ne parlerò ancora domani, per raccontarvi anche qualcos’altro che forse è ancora più curioso…

Buon venerdì a tutti.

[notizie e illustrazioni prese dal web]

la sindrome di Procuste

Procuste, nella mitologia greca, era un locandiere che gestiva una taverna in cui offriva alloggio ai viandanti, nascondendo la sua vera natura sadica e cattiva.

Procuste possedeva un letto dove invitava tutti i viaggiatori a coricarsi. Durante la notte, quando i malcapitati dormivano, ne approfittava per imbavagliarli e legarli. Se la vittima era alta e piedi, mani e testa le sporgevano dal letto, procedeva a tagliarli. Se la persona era bassa, la stirava, rompendole le ossa per far quadrare le misure.

 Questo personaggio oscuro perpetrò le sue azioni macabre per anni, finché non giunse un uomo molto speciale: Teseo. Come sappiamo già, questo eroe aveva acquisito fama per aver affrontato il Minotauro dell’isola di Creta e per esser diventato in seguito il re di Atene. Si narra che, quando Teseo scoprì ciò che quel sadico faceva di notte, decise di sottoporre Procuste allo stesso supplizio che imponeva a tutte le sue vittime.

 Da allora, si è diffuso questo avvertimento a titolo di proverbio: 

Fa’ attenzione, ci sono persone che, quando vedono che hai idee diverse o che sei più brillante di loro, non ci pensano due volte a metterti sul letto di Procuste

Chi è affetto da sindrome di Procuste ha un’invidia aggressiva celata nei confronti degli altri in ambito affettivo, sportivo, politico o lavorativo.

 Chi soffre della sindrome di Procuste quando si trova di fronte ad una persona brillante, intraprendente, creativa e in grado di superarlo in qualche aspetto, non esita a escogitare mille stratagemmi e vili sotterfugi per annullarla, umiliarla e relegarla in un angolo dove smetta di essere “un rischio” e/o dove non può intaccare il suo sentirsi inferiore. 

Niente di più attuale! Oggigiorno funziona spesso in questo modo.

[info e immagini dal web]

Poveri genitori

faccineDifficilissimo essere genitori! L’ho detto tante volte e lo ripeto, allevare un figlio e aiutarlo a crescere è un compito molto complesso, che forse non basterebbe frequentare  nemmeno un corso di laurea quinquennale per prepararsi per bene, da tanto che è complicato.

Essere genitori non vuol dire solo nutrire i figli, ma ascoltarli, consigliarli. accudirli, proteggerli, guidarli e poi far loro da esempio,… ma tutto questo non troppo, altrimenti possono diventare bamboccioni, frustrati, plagiati, viziati, nullafacenti, oziosi e inconcludenti.  Chi è genitore sa che non deve essere solo un “amico” del proprio figlio perché deve anche avere l’autorità per dettargli delle regole da seguire; ma d’altra parte non deve essere  troppo autoritario altrimenti può fare dei danni sul povero pargolo che sta crescendo.

Finché i figli sono piccoli  tutto va abbastanza bene, poi, d’improvviso si entra nell’adolescenza e tutto cambia e diventa incomprensibile. I figli adolescenti ridono troppo, piangono troppo, mangiano troppo oppure smettono di mangiare, parlano troppo e poi ammutoliscono, hanno sempre amici intorno ma spesso li odiano; insomma sono pieni di conflitti e contraddizioni. I genitori si disperano e annaspano alla ricerca di giusti metodi per rapportarsi con quegli individui che fino al giorno prima dormivano nel lettone e giocavano a far coccole e che da un momento all’altro sono diventati estranei; ma chi conosce la teoria dei “giusti metodi”? Chi dà ai poveri genitori delle dritte sul come comportarsi?  Nessuno può dire quale sia la giusta via, quella che dovrebbe fornire la natura umana e il buonsenso e che invece tante volte rimane una via nascosta, che non si trova.

E così i figli che fanno? … I figli dal canto loro a volte (fortunatamente non sempre) alla fine diventano ancora più lontani, silenziosi e incomprensibili e con questo loro enigmatico atteggiamento a volte finisce che accettano i genitori, altre volte invece l‘accettano…  nel senso che li prendono ad accettate..  Comunque si guardi la questione, è incomprensibile.

Bullismo al femminile

bullismo-al-femminileLe donne ci mettono sempre un po’ del suo in ogni cosa. Fino a pochi anni fa vedevi le ragazzine delle medie a carnevale vestirsi in maschera da damina, con i boccoli nei capelli e le trine sugli abiti lunghi colorati di rosa. Adesso le cose sono cambiate e senti parlare di bullismo al femminile. Ma cos’è? Non è facile parlarne anche perché io non sono una psicologa e nemmeno una scrittrice, però tenterò di dirvi qualcosa lo stesso, perché ritengo utile parlare con voi tutti di questo problema che adesso è all’ordine del giorno della cronaca.

Mentre i maschi adolescenti diventano bulli quando fanno a botte, con ceffoni e pugni, le ragazze adolescenti praticano un bullismo più tagliente ed incisivo nella vita della vittima, quindi agiscono sul versante più prettamente psicologico delle compagne malcapitate.  Esse riescono ad arrivare dove la mera violenza non arriva; non si tocca fisicamente la vittima (anche se ci sono dei casi in cui questo accade) ma di distrugge la sua immagine esteriore ed interiore.  Tipicamente femminili sono atti come la calunnia, l’esclusione totale dal gruppo classe e le prese in giro piuttosto pesanti.

Le prese in giro sia sul fisico, che sul carattere ed anche sul modo di vestire della malcapitata hanno lo scopo di divertire, oppure di rinforzare l’immagine di sé innanzi al gruppo o al resto della classe, oppure l’obiettivo di “togliere di mezzo” la persona percepita dalla bulla come rivale in qualche campo.

La bulla percepisce il punto debole della sua vittima ed è su quello che infierirà maggiormente restando nell’ombra, in modo poco visibile specialmente dalle insegnanti.  La persona che subisce questo tipo di prepotenza è principalmente di genere femminile, timida, con disagi fisici o sociali abbastanza visibili, oppure particolarmente bella e invidiata o semplicemente insicura; comunque un soggetto a cui manca il coraggio di reagire ai soprusi.  Questa assenza di reazione decisa incoraggia il branco. Raramente il gruppo classe la difende, molto più spesso invece si assiste ad una esclusione dal gruppo e si parla di lei solo per dire cose cattive o delle falsità.

E’ da sottolineare quanto possano influire negativamente sulla personalità della perseguitata, queste azioni: prima tra tutte è l’insicurezza, l’immagine che lei ha di sé e il rapporto con gli altri.  Le occhiatine, i risolini e i pettegolezzi, infieriscono inevitabilmente sulla costruzione di una sua personalità. L’allarme maggiore è destato dall’aumento dei casi di anoressia causati dalla depressione e dalla mancata accettazione della propria corporeità. Il corpo è infatti uno dei principali argomenti di scherno delle ragazze bulle.

Il lato peggiore del bullismo al femminile consiste nel suo essere indiretto, subdolo e psicologico; si maschera bene ed è quasi invisibile dall’esterno, tant’è che genitori e insegnanti spesso non se ne accorgono. Le ragazzine “tormentatrici” sono viste come delle “cattivelle” e non come delle bulle come sono in realtà ed è per questo motivo che il fenomeno del bullismo al femminile è scarsamente conosciuto e ancora non si conoscono strategie per risolvere completamente questo problema e aiutare come si deve le vittime e le loro famiglie.

[Articolo liberamente scritto rielaborando vari articoli reperiti in rete, principalmente questo]

storie incomplete

sguardoLei era lì, appoggiata alla parete e appariva molto più carina rispetto all’ultima volta che l’avevo vista, circa un paio di anni fa. Il fisico ora era ben tornito e più slanciato, fasciato da un maglioncino accollato color cielo e un paio di jeans con i brillantini luccicanti. Una bella ragazza senza dubbio: alta, con il trucco curato, i capelli legati raccolti in un ciuffo che gli cadeva sulla testa; una pettinatura alla moda, gli occhi neri, pungenti come non mai e poi quel suo sguardo ammiccante e sfuggente che tanto mi faceva arrabbiare quando mi guardava in quel modo che a me sembrava strafottente nel mentre mi rispondeva male in classe.

Era stata una ragazzina difficile; una di quelle che interrompeva monopolizzando l’attenzione dei compagni e non ti faceva mai far lezione in pace. Una tipa tosta, perché così l’aveva fatta diventare la vita difficile che aveva dovuto sopportare da quando era nata. Suo padre che entrava e usciva di galera, i suoi fratelli drogati, sua madre malata di mente e chiusa in una struttura sanitaria, sua zia che la rifiutava e le chiudeva la porta in faccia e sua nonna anziana, malata e povera.
Capita in questi casi che ci si chieda che hanno fatto di male certi ragazzi per nascere in situazioni così devastanti e come mai non hanno potuto avere certi privilegi di cui possono godere i loro coetanei.

Non ci sono alternative a certi destini avversi e l’unica via di uscita è imparare ad accettare la situazione e cercare di sopravvivere.

Di certo per Giulia, la ragazzina dallo sguardo di fuoco, la situazione non si era stabilizzata, altrimenti non saremmo stati lì, nell’anticamera di un’aula di tribunale.  Una strana situazione per chi non è abituato ad avere a che fare con problemi di giustizia e ancor più strana è la situazione di una prof che si trova a dover varcare per la prima volta in vita sua la soglia dell’aula di tribunale per andare a testimoniare per soprusi e violenze familiari su una giovane ragazzina.
Dalla finestra a piano terra si vedeva che fuori il cielo era cupo e nevischiava. La neve aveva coperto le sterpaglie che circondavano lo stabile ed era anche un bene perché il giardino era talmente trascurato e pieno di macerie e robe vecchie che meno si vedeva e meglio era.
“Ciao Giulia, come stai?” .. un breve sorriso e un abbraccio interminabile. E quello è stato l’unico momento bello di tutto quel pomeriggio pieno di domande e di risposte, di sussurri e di urla disperate, pieno di odio e di rancore.. pieno di menzogne e verità.. pieno di cose che non erano mie e che non capivo.. pieno di cose che non avrei mai saputo. Un pomeriggio pieno di storie incomplete e incomprese, forse affrontate troppo tardi, quando ormai non ci sarebbe stato più tempo per cambiare nulla. Un pomeriggio interminabile e assurdo in cui ci si sente inadeguati a tutto, anche a vivere.

La sindrome di burnout

Burnout

La sindrome da burnout è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non ce la facciano a rispondere in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere.
Il burnout interessa insegnanti, educatori, medici, poliziotti, vigili del fuoco, carabinieri, sacerdoti e religiosi (in particolare se in missione), infermieri, operatori assistenziali, tecnici di radiologia medica, psicologi, psichiatri, educatori professionali in case psichiatriche protette, tecnici della riabilitazione psichiatrica, avvocati, assistenti sociali, fisioterapisti, anestesisti, medici ospedalieri, ostetriche, studenti di medicina e infermieristica, responsabili e addetti a servizi di prevenzione e protezione, personale della protezione civile, operatori del volontariato, ricercatori ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata.

Ne consegue che, se non opportunamente trattati, questi soggetti cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato (“burnout” in inglese significa proprio “bruciarsi”). In tali condizioni può anche succedere che queste persone si facciano un carico eccessivo delle problematiche delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. Il burnout comporta esaurimento emotivo.

Le fasi del burnout

La sindrome si manifesta generalmente seguendo quattro fasi.
1) La prima, preparatoria, è quella dell’entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale.

2) Nella seconda (stagnazione) il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. L’entusiasmo, l’interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire.

3) Nella terza fase (frustrazione) il soggetto affetto da burnout avverte sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato; spesso tende a mettere in atto comportamenti di fuga dall’ambiente lavorativo, ed eventualmente atteggiamenti aggressivi verso gli altri o verso se stesso. 

4) Nel corso della quarta fase (apatia) l’interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente e all’empatia subentra l’indifferenza, fino ad una vera e propria “morte professionale“. .. 

[Nota personale: che dire di più? Ecco, appunto, direi: … AMEN! ]
[articolo preso qui, modificato e sintetizzato; l’immagine è presa da qui]